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Esercizio al sonno

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Esercizio al sonno - scritto | Varie

Come uno stronzo.

Che angoscia cazzo, che angoscia, cazzo. Un'altra notte a fissare quello che resta del soffitto annullato nel buio delle notte di autunno. Di nuovo quell'insonnia. Un debole barlume che filtra dalla finestra, e chissà dov'è la fonte di quel FARO, - come qualche stella morta vent'anni fa, e il suo luccichio ancora qui, a pizzicarmi le palpebre chiuse. Poi un buffo leggero però continuo, che entra di soppiatto, - e a soffiar contro, tutta la mia coscienza. Scusa se non ti ho chiesto come stai, se non te lo chiedo mai, se non mi faccio sentire per giorni e poi ti addosso tutto il mio fardello. Mi sembra di vedere tutto. Ne sento addirittura le voci, - è quell'assiduità dell'alternarsi per forza del giorno e della notte, - a malapena vacilla nella lucidità del primo sogno l'aurora. - Non ricordo bene quando ho desiderato la prima volta, - mi sforzo, ci provo, voglio ricordare qual'è stato il mio primo desiderio, - e non mi riesce. - Latte? Il televisore nella casa al mare quando fuori pioveva? Che uno degli altri bambini mi invitasse a giocare con loro a pallone?, che i gettoni x i videogiochi non mi finessero mai, che il topolino d'india entrasse nella tana che portava il mio numero, che la suora dell'asilo riconoscesse in me Cristo, che mi si confermasse capo dei maschi alle elementari, o almeno delle spie, - che gli adulti ravvisassero in me i segni del genio gridando al miracolo. 'Com'è serio!' deve aver detto una delle amiche di mia madre mentr'ero infante, - e serio tutta la vita. Condannato al cruccio. Un decreto. Rughe di espressione a otto anni. Ore e ore ad aggrottare la fronte alzando le sopracciglia, notti passate a dormire di nascosto sotto il materasso, Piccolo Padre Tempo dello spreco, elucubrazioni su Niente, e su come evitare di rimanerci rapito. Poi non so, - tutte quelle feste, tutte quelle intenzioni, - i braceri delle emozioni, il naso che colava, la vista che si consumava, il cielo che era palesemente sferico, il sogno di essere stato adottato, la visione concreta e di solitudine dei genitori che sarebbero un giorno morti, un vecchio e i suoi due mastini come la sua famiglia, la ragazza di fronte che prendeva il sole, quella che mi insegnò che pur giurando su dio, se prima aveva tenuto le dita incrociate allora ne era fuori. Poi la velocità, il senso del dovere, della protezione, i primi segni della mortalità, - il tempo sulla pelle caduca, il censimento dei gretti, la presa al potere dei senza virtù. - Le mosche volano in spire imperfette in quello che hanno deciso essere il centro della mia stanza. Le caccio, ma si richiamano sopra intorno al mio giaciglio, - quindi il resto perde pregio, - posizione fetale sotto le coperte, stanchezza e torpore alle gambe, - poi quella fitta improvvisa ai polpacci, - la morsa dell'asino, il fantasma che con le mani gelide mi tira per le gambe per trascinarmi nella sua onta, - poi l'arrivo della memoria: indefinita, incerta, insicura, sfocata, - appena accennata anzi, - giusto un lembo di quello che la veste, - a malapena mi accorgo di aver cominciato a sognare, - e se stringo le palpebre ancora sono lí davanti, ancora posso trattenere e abbandonarmi a quella vertigo che mi richiama senza remore. Ancora un brivido di gelo, - forse lei invece, nel suo di letto, si preoccupa per me, o cosí si è concessa al sonno. Mi dispiace, non dartene troppa cura. Ho bisogno di tornare nel deserto. Dimorare con me stesso in solitudine, in libertà e senza anello di catena.

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