Il capodanno è una festa orribile, buttiam volentieri le cose
dalla finestra, ma generalmente quando c'è tanta gente ubriaca e pronta
a divertirsi a tutti i costi siamo sempre i primi a vomitare. Un film
come Moon ha il potere e molte virtù per darci la rassegnazione giusta
anche per un 31 dicembre a piazza del popolo tra diciassetteni
cocaionomani molesti e un concerto di Renato Zero.
Quando abbiamo saputo che il regista Duncan Jones, figlio di David Bowie, stava per preparare una storia su di un'astronauta sperduto nello spazio (ma va?) ci eravamo ripromessi di aprire un centro di recupero per diciassettenni molesti pur di non andare al cinema.
Per fortuna non manteniamo mai le promesse. Assieme a Valzer con Bashir e Welcome, molto semplicemente Moon è uno dei più bei film dell'anno.
Si apre come una versione sgualcita e usurata di 2001 Odissea nello spazio, con Sam Rockwell (lo scorso anno nelle sale con Soffocare) che estrae gradasso e svogliato in Elio-3 tutto solo sulla Luna (la parte oscura) da tre anni e al massimo parla con il computer. No, no HAl 9000, ma Gerty (voce di Kevin Spacey [- ma, chiaramente, noi italioti ci dobbiamo accontentare del suo doppiatore nostrano, ndpyhm]).
Come insegna anche Shining però non si può lavorare troppo a lungo in solitudine. Presto, a due settimane dal ritorno a casa Sam dovrà fare i conti con delle allucinazioni e il proprio alter ego. Non possiam andar oltre nel raccontare la trama, si sappia che Jones però ha reso benissimo la rappresentazione dell'alienazione, del rapporto dell'uomo con la macchina e con la serialità e il senso di frustrazione e annullamento che il lavoro riesce a dare alle soglie del 2010.
Ci sono solo due location. Quella opprimente della base lunare, e l'esterno con la vista in lontananza della Terra. Il momento in cui il protagonista conosce la verità con gli occhi appesi alla nostra stratosfera che è uno sputo, consapevole di non poter comunicare a nessuno la propria disperazione è una delle scene che ci ha lasciato più a lungo un senso di impotenza da quando andiamo al cinema.
Sappiamo che siamo tutti parti insignificanti e sostituibili di un
meccanismo gigantesco e schifoso, ma ricordarlo a poche ore dalla fine
dell'anno lascia una percezione di epilogo quasi mistico.Quando abbiamo saputo che il regista Duncan Jones, figlio di David Bowie, stava per preparare una storia su di un'astronauta sperduto nello spazio (ma va?) ci eravamo ripromessi di aprire un centro di recupero per diciassettenni molesti pur di non andare al cinema.
Per fortuna non manteniamo mai le promesse. Assieme a Valzer con Bashir e Welcome, molto semplicemente Moon è uno dei più bei film dell'anno.
Si apre come una versione sgualcita e usurata di 2001 Odissea nello spazio, con Sam Rockwell (lo scorso anno nelle sale con Soffocare) che estrae gradasso e svogliato in Elio-3 tutto solo sulla Luna (la parte oscura) da tre anni e al massimo parla con il computer. No, no HAl 9000, ma Gerty (voce di Kevin Spacey [- ma, chiaramente, noi italioti ci dobbiamo accontentare del suo doppiatore nostrano, ndpyhm]).
Come insegna anche Shining però non si può lavorare troppo a lungo in solitudine. Presto, a due settimane dal ritorno a casa Sam dovrà fare i conti con delle allucinazioni e il proprio alter ego. Non possiam andar oltre nel raccontare la trama, si sappia che Jones però ha reso benissimo la rappresentazione dell'alienazione, del rapporto dell'uomo con la macchina e con la serialità e il senso di frustrazione e annullamento che il lavoro riesce a dare alle soglie del 2010.
Ci sono solo due location. Quella opprimente della base lunare, e l'esterno con la vista in lontananza della Terra. Il momento in cui il protagonista conosce la verità con gli occhi appesi alla nostra stratosfera che è uno sputo, consapevole di non poter comunicare a nessuno la propria disperazione è una delle scene che ci ha lasciato più a lungo un senso di impotenza da quando andiamo al cinema.
Fichissimi i titoli di testa in apertura.
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