La locomotiva arriva dal Nord, dritta, filata,
compatta e scoppiettante. Da Verona per l'esattezza.
Dopo l'ottimo esordio di A sky with no stars nel 2007, il conseguente tour e un silenzio misurato e proprio di coloro i quali la musica la fanno davvero (perché la aspettano e la sentono), esce The fall of 1960, a distanza di quasi tre
anni, nello scorso aprile, sempre per la Ghost rec, e il relativo tour.
I Canadians dal vivo sono efficienti, navigati, robusti, serrati e risoluti; un muro di suono ben amalgamato, solido ed energico, uno strano miscuglio dal sapore californiano venato dalle nebbie del Nord Italia.
Tant'è che, mentre arriviamo, in ritardo come al solito, sul finire del secondo pezzo (l'inedito Lethargy), ed esserci perse A great day, la mia amica mi fa: "Ma che davero, so' Italiani?".
Eh sí. Per una delle poche volte, buoniddio sí, sono italiani. E non scimmiottano: rielaborano.
Non scopiazzano imbastardendo, piuttosto interpretano personalizzando. A tal punto che quasi mi verrebbe in mente di suggerir loro una follia: almeno una volta fare un testo in italiano. Secondo me, sarebbero in grado, senza scadere nel ridicolo.
A ogni modo, il concerto procede ininterrotto e scorrevole: si alternano brani (Leave no trace) dall'ultimo e (Ode to the season) dal primo album, dal sapore più Weezer-iano, poi arrivano Carved in the bark, The night before the wedding e Yes man che virano più Death Cab for Cutie e Grandaddy, si torna alla poesia energica e nostalgica del post-college americano di 15th of August e Last revenge of the nerds del primo album, poi, di nuovo, ad una quadripletta di canzoni dell'ultimo lavoro: Rain turns into hail e Kim the dishwasher, con cantati degni dei Beach Boys, e la malinconia appena accennata di The fall of 1960 e The richest dumbass in the world. Poi, ancora una tripletta di brani dal primo album, tra cui la notevole Out of order, Summer teenage girl e, per concludere, Good news.
Insomma, una scaletta davvero lunga e quasi senza respiro tra un pezzo e l'altro, in cui è possibile ammirare la bravura dei tre front-men: Duccio Simbeni alla voce e chitarre (e testi, sempre molto garbati e ironici), il polistrumentista- (tastiere, mandolino, glockenspiel) cantante Vittorio Pozzato e il bassista-cantante-intrattenitore-promotore
Massimo Fiorio, sempre saldamente supportati dalla granitica presenza
di Michele Nicoli all'altra chitarra e il
degnissimo di nota Christian Corso alla batteria.
Le uniche cose di cui si sente una lieve mancanza, a volte, sono, tra tanta compattezza, creatività e perizia tecnica, un po' più di trasporto e coinvolgimento emotivo.
Dopo l'ottimo esordio di A sky with no stars nel 2007, il conseguente tour e un silenzio misurato e proprio di coloro i quali la musica la fanno davvero (perché la aspettano e la sentono), esce The fall of 1960, a distanza di quasi tre
anni, nello scorso aprile, sempre per la Ghost rec, e il relativo tour.
I Canadians dal vivo sono efficienti, navigati, robusti, serrati e risoluti; un muro di suono ben amalgamato, solido ed energico, uno strano miscuglio dal sapore californiano venato dalle nebbie del Nord Italia.
Tant'è che, mentre arriviamo, in ritardo come al solito, sul finire del secondo pezzo (l'inedito Lethargy), ed esserci perse A great day, la mia amica mi fa: "Ma che davero, so' Italiani?".
Eh sí. Per una delle poche volte, buoniddio sí, sono italiani. E non scimmiottano: rielaborano.
Non scopiazzano imbastardendo, piuttosto interpretano personalizzando. A tal punto che quasi mi verrebbe in mente di suggerir loro una follia: almeno una volta fare un testo in italiano. Secondo me, sarebbero in grado, senza scadere nel ridicolo.
A ogni modo, il concerto procede ininterrotto e scorrevole: si alternano brani (Leave no trace) dall'ultimo e (Ode to the season) dal primo album, dal sapore più Weezer-iano, poi arrivano Carved in the bark, The night before the wedding e Yes man che virano più Death Cab for Cutie e Grandaddy, si torna alla poesia energica e nostalgica del post-college americano di 15th of August e Last revenge of the nerds del primo album, poi, di nuovo, ad una quadripletta di canzoni dell'ultimo lavoro: Rain turns into hail e Kim the dishwasher, con cantati degni dei Beach Boys, e la malinconia appena accennata di The fall of 1960 e The richest dumbass in the world. Poi, ancora una tripletta di brani dal primo album, tra cui la notevole Out of order, Summer teenage girl e, per concludere, Good news.
Insomma, una scaletta davvero lunga e quasi senza respiro tra un pezzo e l'altro, in cui è possibile ammirare la bravura dei tre front-men: Duccio Simbeni alla voce e chitarre (e testi, sempre molto garbati e ironici), il polistrumentista- (tastiere, mandolino, glockenspiel) cantante Vittorio Pozzato e il bassista-cantante-
Le uniche cose di cui si sente una lieve mancanza, a volte, sono, tra tanta compattezza, creatività e perizia tecnica, un po' più di trasporto e coinvolgimento emotivo.
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