Black Mountain
w/ Goldenheart Assembly + Night Terrors
Live @ Circolo degli Artisti, Roma, 1 ottobre 2010, ingr. 15 neuri
| Enantiodromica
Pronti per l'energia? Pronti, partenza, via.
Quaranta gli anni, (psichedelia) più o (rock classico) meno, in cui proiettarsi indietro nel tempo e quaranta i minuti che il Circolo degli Artisti dovrebbe aggiungere all'orario d'inizio dei concerti.
Perché, va bene la politica professional-britannica del suonare presto, finire presto (e non pulire il water) ma arrivare alle dieci spaccate e aver già perso un paio di pezzi dei Black Mountain è veramente troppo, calcolando anche la presenza di ben due gruppi d'apertura: i londinesi Goldenheart Assembly e gli australiani Night Terrors.
Quaranta gli anni, (psichedelia) più o (rock classico) meno, in cui proiettarsi indietro nel tempo e quaranta i minuti che il Circolo degli Artisti dovrebbe aggiungere all'orario d'inizio dei concerti.
Perché, va bene la politica professional-britannica del suonare presto, finire presto (e non pulire il water) ma arrivare alle dieci spaccate e aver già perso un paio di pezzi dei Black Mountain è veramente troppo, calcolando anche la presenza di ben due gruppi d'apertura: i londinesi Goldenheart Assembly e gli australiani Night Terrors.
I nostri, invece, arrivano dal Canada e promuovono il loro terzo album uscito per la Jagjaguwar Rec, Wilderness Heart.
A guardarli bene, i Black Mountain, più che di Vancouver, sembrano cinque giovani fricchettoni appena usciti da uno scantinato californiano, un paio di estati dopo Woodstock e troppe estati prima dello stoner dei Kyuss, e, per caso, catapultati ai nostri giorni.
Le loro sonorità spaziano tra i Jefferson Airplane e i Quicksilver Messenger Service, per quello che riguarda l'impronta più psych-acid-rock, e la durezza energica dell'hard-rock e metal dei Black Sabbath, forse veri numi tutelari del gruppo.
Poi si tingono vagamente di echi Doors-iani, sulle ballate più blueseggianti, portano nel cuore la lezione dei Velvet Undreground, citano appena i Pink Floyd dei primordi e, sul terzo bis a chiusura del concerto, omaggiano anche il riff iniziale di You doo right dei Can.
Il
tutto onestamente e incredibilmente cristallizzato in un insolito
viaggio nel tempo, sospeso tra il miglior (roots) rock americano e l'heavy (blues) inglese, senza via d'uscita né ritorno.
La formazione vede Stephen McBean, leader, voce e chitarra della band, affiancato da Amber Webber come seconda cantante, Matt Camirand al basso, Jeremy Schmidt alle tastiere e Josh Wells alla batteria, tutti rockers immersi nella parte, tecnicamente
abili, navigatamente esperti e caldi come il sole californiano.
L'unico lieve dispiacere lo provoca soltanto la cantante femminile: incautamente posta al centro della scena come front-woman, meglio farebbe, invece, a spostarsi lateralmente come sider di Stephen.
Peccato, perchè la sua voce è bella, cristallina e pastosa, uno strano miscuglio di una Neko Case prestata al rock e macchiata di lievi tinte Celin Dion-iane, ma Amber, evidentemente di nome e di fatto, appare come una creaturina preistorica intrappolata nella resina della timidezza e dello stoccafissaggio. E su un rock come questo, proprio non si può.
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