Giuseppe Genna
La vita umana sul pianeta Terra
(Mondadori 2014, 163 p., brossura)
| federico immigrato e rifugiato
E' difficile immaginare in che modo avremmo potuto elaborare il lutto collettivo per una strage come quella del lago di Utøya se l'avessimo vista compiersi qui in italia.
Quando tragedie di sangue cosí eclatanti si consumano fuori dai nostri confini, di solito, tendiamo a dare una certa importanza al numero confortante di tutti i chilometri che ce ne possono tenere lontano. Come se la distanza da qui alla casa di uno Anders Behring Breivik valesse automaticamente come una specie di sapone che può smacchiarci da tutta la sua devastante barbaria. Giuseppe Genna, in questo senso, nel suo nuovo libro La Vita umana sul pianeta Terra, procede esattamente nella direzione contraria.
E' evidente che il massacro a sangue freddo di settanta ragazzi in poco più di un'ora spaventa e turba profondamente l'autore milanese. Più che mettersene al riparo, però, è come se qui lo scrittore voglia confondere il vuoto del killer nazista norvegese con il proprio, arrivando alla conclusione paradossale che lo smarrimento di Breivik è lo stesso che corrode da anni ormai tutto l'Occidente.
Ripercorrendo e analizzando nella forma di una specie di romanzo sotto shock la vita del terrorista trentenne ora in carcere, Genna non ha nessuna intenzione di dare un'interpretazione al suo male particolare. Ripete più volte nel corso del libro che, in un caso come questo, qualunque trauma non ha la forza di giustificare nulla. Il divorzio dei genitori, il rapporto ambiguo con la madre o la vita sessuale imbarazzata non potranno mai essere il punto di partenza per avviare un percorso di recupero psicologico sensato del mostro di Utøya, anzi. Hannah Arendt, nel caso specifico di Eichmann, parlò di banalità del male.
Questa tragedia per Genna è solo frutto del vuoto più assoluto, e che oltre a Breivik coinvolge tutti, dai padri che abbandonano i figli, agli umanisti o agli ingegneri informatici, di cui a pagina 140 fa un ritratto sconvolgente e profetico. Se fossimo in un mondo che cogliesse ancora ciò che è simbolico, avrebbe un senso il senso il fatto che il giovanissimo attentatore norvegese è riuscito a demolire i palazzi governativi solo con del concime.
La letteratura o la filosofia ormai però non hanno più nessuna autorevolezza per decifrare catastrofi del genere. Con un libro cosí complesso, Genna, in questo senso, è come se si vendicasse del suo editore che voleva proporgli solo una squallida e opportunistica spy-story. Riesce a farlo in più dando sfogo a una serie di iperboli sconce e provocatorie e che mettono a nudo il suo io controverso.
Un autore come Foster Wallace può piacere o non piacere. In Italia ha sicuramente avuto una fortuna immensa. Il modo contorto, enigmatico e doloroso con cui snodava sempre il proprio pensiero dava sempre l'idea che dietro la sua scrittura ci fosse uno sforzo letterario angosciante e ciclopico.
Genna qui da quasi l'idea di un tipo di ispirazione esattamente all'opposto. Come se per abbandonarsi al male bastasse solo sbottonarsi e lasciar correre i pensieri contraddittori, glaciali e magnetici.
Lo schema di Genna però è paradossalmente sempre solido. Anche gettandosi dall'alto della Torre Galfa a Milano riuscirebbe ad avere una distanza controllata e liquida dal male. Il nostro paese non ricorda da vicino massacri di quella portata. Le ultime tragedie di sangue che hanno coinvolto l'Italia negli ultimi anni comunque poche volte hanno generato una partecipazione di coscienza profonda o capace di andare oltre i livelli della tipica mediazione guidata degli psicologi in TV.
Il libro di Genna suona come un'assunzione di responsabilità. O un'espiazione, visto che con la morte dei libri, la Mondadori e degli scrittori, il suo unico lavoro ora è quello di uccidere il lavoro*.
* L'autore milanese ora tiene corsi universitari a Berlino per futuri tagliatori di teste.
Quando tragedie di sangue cosí eclatanti si consumano fuori dai nostri confini, di solito, tendiamo a dare una certa importanza al numero confortante di tutti i chilometri che ce ne possono tenere lontano. Come se la distanza da qui alla casa di uno Anders Behring Breivik valesse automaticamente come una specie di sapone che può smacchiarci da tutta la sua devastante barbaria. Giuseppe Genna, in questo senso, nel suo nuovo libro La Vita umana sul pianeta Terra, procede esattamente nella direzione contraria.
E' evidente che il massacro a sangue freddo di settanta ragazzi in poco più di un'ora spaventa e turba profondamente l'autore milanese. Più che mettersene al riparo, però, è come se qui lo scrittore voglia confondere il vuoto del killer nazista norvegese con il proprio, arrivando alla conclusione paradossale che lo smarrimento di Breivik è lo stesso che corrode da anni ormai tutto l'Occidente.
Ripercorrendo e analizzando nella forma di una specie di romanzo sotto shock la vita del terrorista trentenne ora in carcere, Genna non ha nessuna intenzione di dare un'interpretazione al suo male particolare. Ripete più volte nel corso del libro che, in un caso come questo, qualunque trauma non ha la forza di giustificare nulla. Il divorzio dei genitori, il rapporto ambiguo con la madre o la vita sessuale imbarazzata non potranno mai essere il punto di partenza per avviare un percorso di recupero psicologico sensato del mostro di Utøya, anzi. Hannah Arendt, nel caso specifico di Eichmann, parlò di banalità del male.
Questa tragedia per Genna è solo frutto del vuoto più assoluto, e che oltre a Breivik coinvolge tutti, dai padri che abbandonano i figli, agli umanisti o agli ingegneri informatici, di cui a pagina 140 fa un ritratto sconvolgente e profetico. Se fossimo in un mondo che cogliesse ancora ciò che è simbolico, avrebbe un senso il senso il fatto che il giovanissimo attentatore norvegese è riuscito a demolire i palazzi governativi solo con del concime.
La letteratura o la filosofia ormai però non hanno più nessuna autorevolezza per decifrare catastrofi del genere. Con un libro cosí complesso, Genna, in questo senso, è come se si vendicasse del suo editore che voleva proporgli solo una squallida e opportunistica spy-story. Riesce a farlo in più dando sfogo a una serie di iperboli sconce e provocatorie e che mettono a nudo il suo io controverso.
Un autore come Foster Wallace può piacere o non piacere. In Italia ha sicuramente avuto una fortuna immensa. Il modo contorto, enigmatico e doloroso con cui snodava sempre il proprio pensiero dava sempre l'idea che dietro la sua scrittura ci fosse uno sforzo letterario angosciante e ciclopico.
Genna qui da quasi l'idea di un tipo di ispirazione esattamente all'opposto. Come se per abbandonarsi al male bastasse solo sbottonarsi e lasciar correre i pensieri contraddittori, glaciali e magnetici.
Lo schema di Genna però è paradossalmente sempre solido. Anche gettandosi dall'alto della Torre Galfa a Milano riuscirebbe ad avere una distanza controllata e liquida dal male. Il nostro paese non ricorda da vicino massacri di quella portata. Le ultime tragedie di sangue che hanno coinvolto l'Italia negli ultimi anni comunque poche volte hanno generato una partecipazione di coscienza profonda o capace di andare oltre i livelli della tipica mediazione guidata degli psicologi in TV.
Il libro di Genna suona come un'assunzione di responsabilità. O un'espiazione, visto che con la morte dei libri, la Mondadori e degli scrittori, il suo unico lavoro ora è quello di uccidere il lavoro*.
* L'autore milanese ora tiene corsi universitari a Berlino per futuri tagliatori di teste.
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