Helmet
Live @ Circolo degli Artisti, Roma, 16/10/2014
Ingresso 15 euro
| federico immigrato e rifugiato
Esser riusciti a vedere i Pavement dal vivo nel 2010 a diciott'anni dalla prima volta ha sdoganato del tutto il nostro timore reverenziale a confrontarci con l'idea drammatica del tempo che passa e che a volte non lascia nemmeno più foto ricordo. Bruciate tutte con i primi Hard disk e quei vecchi VHS che non potremo mai più riversare. Poi è stata la volta della rimpatriata con i Kyuss all'Orion e la nostalgia capita si trasformi in un rancore fuori fuoco, noiso, da anziani che se la prendono con Josh Homme che fa la prima donna e di(e)sert(a) o il nuovo chitarrista che è una specie di pippa.
Ora è la volta dei grandissimi Helmet, e oltre a prendercela con dei giovanotti maleducati che si erano impossessati delle uscite posteriori del nostro autobus, per la prima volta dopo tantissimi anni abbiamo deciso di fare il biglietto prima della sera stessa del concerto.
Il tempo passa proprio per tutti.
Oltre all'insopprimibile smania di rivedere un gruppo che ha segnato la nostra adolescenza, questa sera c'era anche la voglia di incontrare tantissimi amici che non vedevamo da tempo immemore.
Vent'anni fa vedemmo Page Hamilton e il suo gruppo nella bizzarra cornice del Parco del turismo all'Eur.
Lo strapotere fisico e chirurgico del batterista John Stanier (Tomahawk, The Mark of Cain, Battles), rimane ancora una delle cose più devastanti che ci hanno colpito in tanti anni di concerti.
Allora venivamo giusto dai nostri primi contatti con il punk e il disordine morale dell'hardcore e il confronto cosí ravvicinato con i concetti di pulizia del suono, precisione e compattezza era destinato a farci subito rientrare nella minoranza della minoranza dell'esiguo numero di persone che si sentiva un certo tipo di musica a Roma.
Gli Helmet non facevano assoli per essere metal, erano distorti, ma non esageratamente noise, sconfinavano in scureggette jazzy, ma non lo facevano con il terrore impulsivo che poi avrebbe caratterizzato Naked City o Mike Patton.
Cominciavano a distanziare gli stacchi, ma non lo facevano sgravando come poi avrebbero fatto gli Earth Crisis o gli Snapcase.
Per certi versi erano l'esatta trasposizione di una specie di studente di Scienze Politiche nel post hardcore. Un po' tutto e niente in fondo, a tastare bene.
Eppure eravamo tremendamente affascinati da loro, forse perché inconsapevolmente sono stati i primi a dare l'inizio a tantissime cose.
Betty, prima di dare il via alla nostra brama di consumare dischi e generi alla velocità della luce, è stato forse uno degli ultimi dischi che abbiamo ascoltato senza skippare dall'inizio alla fine per centinaia di volte.
Questa sera lo ripropongono integralmente qui al Circolo degli artisti, dopo aver celebrato In the meantime due anni fa al Traffic.
Line-up di due anni fa riconfermata. I tre non hanno l'aria tremendamente newyorkese e colta della formazione originaria, ma sembrano esser stati ben educati in senso maoista all'idea del suono del loro leader.
I primi cinque pezzi scorrono ad una velocità e una potenza allucinante e non abbiamo nemmeno il tempo di ricordare quale spot pubblicitario maledivamo su videomusic aspettando il video di Biscuits For Smut.
L'ordine è esattamente quello del disco e l'unica cosa che ci manca forse è il suono più metallico del rullante. Per il resto il tutto ha un'incidere molto vicino alla gioia sessuale e il il groove del basso è molto simile a quello del caro dottor Bogdan.
Per il resto la parte in cui è scattato il nostro personalissimo karaoke è stato tra Vaccination e Speechless. Questa fantastica davvero.
Ascoltando il disco eravamo sicuri che gli intermezzi country jazz li suonassero con strumenti più vecchi o semiacustici. Manco per il cazzo. Finito Betty, parte la seconda parte del set con i pezzi da Aftertaste e Meantime.
Prende mano anche il lato da showman di Hamilton, ma è probabile che tra tre anni lo rivedremo qui per il prossimo ventennale più che al Saturday night live.
Il modo in cui riprende il bassista Dave Case per aver toppato qualche pezzo da Meantime è quasi spigoloso come Ironhead.
Non è una cosa rilevante. Specie quando attaccano Just Another Victim, forse uno dei cinque pezzi più importanti mai scritti negli anni '90.
Il finale è In the Meantime e non abbiamo timore a perdere la dignità.
Al banchetto, lasceremo tutti i soldi che ci rimangono. Due ore di concerto al Circolo, strapieno di gente, e sul palco un 54enne che non se ne vuole andare, i conti non sono mai tornati cosí bene.
***
Finito il concerto, verso mezzanotte e un quarto, l'aria è ancora irrespirabile tanto era pieno di gente il Circolo: Hamilton fa il meritato bagno di folla di fans, un range di età che variava dai 18 ai 50 anni, molto testosterone, tanto headbanging da avere male al collo; regala i suoi polsini, lancia tutti i suoi plettri al pubblico, non si nega per una foto di gruppo. Il batterista dea Kali Kyle Stevenson dona le sue bacchette. Questo è amore corrisposto. (by pall youhideme)
Ora è la volta dei grandissimi Helmet, e oltre a prendercela con dei giovanotti maleducati che si erano impossessati delle uscite posteriori del nostro autobus, per la prima volta dopo tantissimi anni abbiamo deciso di fare il biglietto prima della sera stessa del concerto.
Il tempo passa proprio per tutti.
Oltre all'insopprimibile smania di rivedere un gruppo che ha segnato la nostra adolescenza, questa sera c'era anche la voglia di incontrare tantissimi amici che non vedevamo da tempo immemore.
Vent'anni fa vedemmo Page Hamilton e il suo gruppo nella bizzarra cornice del Parco del turismo all'Eur.
Lo strapotere fisico e chirurgico del batterista John Stanier (Tomahawk, The Mark of Cain, Battles), rimane ancora una delle cose più devastanti che ci hanno colpito in tanti anni di concerti.
Allora venivamo giusto dai nostri primi contatti con il punk e il disordine morale dell'hardcore e il confronto cosí ravvicinato con i concetti di pulizia del suono, precisione e compattezza era destinato a farci subito rientrare nella minoranza della minoranza dell'esiguo numero di persone che si sentiva un certo tipo di musica a Roma.
Gli Helmet non facevano assoli per essere metal, erano distorti, ma non esageratamente noise, sconfinavano in scureggette jazzy, ma non lo facevano con il terrore impulsivo che poi avrebbe caratterizzato Naked City o Mike Patton.
Cominciavano a distanziare gli stacchi, ma non lo facevano sgravando come poi avrebbero fatto gli Earth Crisis o gli Snapcase.
Per certi versi erano l'esatta trasposizione di una specie di studente di Scienze Politiche nel post hardcore. Un po' tutto e niente in fondo, a tastare bene.
Eppure eravamo tremendamente affascinati da loro, forse perché inconsapevolmente sono stati i primi a dare l'inizio a tantissime cose.
Betty, prima di dare il via alla nostra brama di consumare dischi e generi alla velocità della luce, è stato forse uno degli ultimi dischi che abbiamo ascoltato senza skippare dall'inizio alla fine per centinaia di volte.
Questa sera lo ripropongono integralmente qui al Circolo degli artisti, dopo aver celebrato In the meantime due anni fa al Traffic.
Line-up di due anni fa riconfermata. I tre non hanno l'aria tremendamente newyorkese e colta della formazione originaria, ma sembrano esser stati ben educati in senso maoista all'idea del suono del loro leader.
I primi cinque pezzi scorrono ad una velocità e una potenza allucinante e non abbiamo nemmeno il tempo di ricordare quale spot pubblicitario maledivamo su videomusic aspettando il video di Biscuits For Smut.
L'ordine è esattamente quello del disco e l'unica cosa che ci manca forse è il suono più metallico del rullante. Per il resto il tutto ha un'incidere molto vicino alla gioia sessuale e il il groove del basso è molto simile a quello del caro dottor Bogdan.
Per il resto la parte in cui è scattato il nostro personalissimo karaoke è stato tra Vaccination e Speechless. Questa fantastica davvero.
Ascoltando il disco eravamo sicuri che gli intermezzi country jazz li suonassero con strumenti più vecchi o semiacustici. Manco per il cazzo. Finito Betty, parte la seconda parte del set con i pezzi da Aftertaste e Meantime.
Prende mano anche il lato da showman di Hamilton, ma è probabile che tra tre anni lo rivedremo qui per il prossimo ventennale più che al Saturday night live.
Il modo in cui riprende il bassista Dave Case per aver toppato qualche pezzo da Meantime è quasi spigoloso come Ironhead.
Non è una cosa rilevante. Specie quando attaccano Just Another Victim, forse uno dei cinque pezzi più importanti mai scritti negli anni '90.
Il finale è In the Meantime e non abbiamo timore a perdere la dignità.
Al banchetto, lasceremo tutti i soldi che ci rimangono. Due ore di concerto al Circolo, strapieno di gente, e sul palco un 54enne che non se ne vuole andare, i conti non sono mai tornati cosí bene.
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Finito il concerto, verso mezzanotte e un quarto, l'aria è ancora irrespirabile tanto era pieno di gente il Circolo: Hamilton fa il meritato bagno di folla di fans, un range di età che variava dai 18 ai 50 anni, molto testosterone, tanto headbanging da avere male al collo; regala i suoi polsini, lancia tutti i suoi plettri al pubblico, non si nega per una foto di gruppo. Il batterista dea Kali Kyle Stevenson dona le sue bacchette. Questo è amore corrisposto. (by pall youhideme)
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