The american dream, what's left of it? An notional autopsy would lead to lucid writers as Raymond Carver and John Cheever, - then, for sure, Stars of the Lid (through their nearly Lynch-ish aeshetics) and Tim
Hecker take part in drawing a prospective depth to this sense of void that every non-ideology ends with (aka tout-court ideology). His Imaginary Country coming out from this work seems boundless, - it looks like able to codify an uneasiness deeply rooted into a consumer society, declining it through a concept of endless present: today and the compulsive attention for it as antidote against the perplexity of tomorrow, always ready to turn its back on us. The twelve titles making An Imaginary Country look like alluding to coordinates of places that probably are more inner than physical (Where Shadows Make Shadows, Her Black Horizont, The Inner Shore) and reach a sublimation along a magmatic flux, fed with ambient drones, sometimes embitter and blurred by vivid saturations. Just like with
Fennesz, here the abstraction and deconstrution of the melodic matter, nearly reflected in pieces of a broken mirror, can be the reading key of the whole album, which is doubtless animated by a sense of full roundness (the opening of 100 Years Ago is a puzzling déjà vu close to last track 200 Years Ago).
An Imaginary Country is a sincere invitation to have a close look to what's dying in our well-groomed house garden: You might notice something lying on the perfect symmetry of the trimming height, - something very similar to our intimate desires.
++++++++++++++++++++++++++
Se l'indagine autoptica di ciò che restava delle spoglie del “sogno Americano” ha trovato lucide voci letterarie del calibro di Raymond Carver e John Cheever, allora sicuramente Stars of the Lid (con la loro estetica quasi Lynch-ana) e Tim Hecker contribuiscono a dare una profondità prospettica al senso di vuoto che lascia la fine di ogni non-ideologia (o ideologia tout-court). Il “Paese immaginario” che emerge dall'ultimo lavoro di Hecker sembra non avere confini, bensí sembra codificare un disagio che è sempre appartenuto alla nostra società di consumo, declinandolo attraverso un concetto di eterno presente: l'oggi e la compulsiva attenzione al presente come antidoto contro l'incertezza di un domani che improvvisamente ci volta le spalle. I titoli stessi delle dodici composizioni che costituiscono An Imaginary Country sembrano indicare coordinate solo accennate di luoghi che forse sono più interiori che fisici (Where Shadows Make Shadows, Her Black Horizont, The Inner Shore) e che arrivano a sublimazione attraverso un flusso magmatico e fremente di drones ambientali, talvolta inaspriti e sfocati da turgide saturazioni. Proprio come in Fennesz l'astrazione e la decomposizione della componente melodica, quasi come se frammentata nel riflettersi su specchi in frantumi, possono presentarsi come la chiave di lettura dell'intero disco, che inconfutabilmente è anche animato da un senso profondo di circolarità (l'apertura di 100 Years Ago costituisce un disorientante déjà vu accanto alla conclusiva 200 Years Ago).
An Imaginary Country è un sincero invito a tener d'occhio ciò che muore nei curati giardini delle nostre case: ciò che che potremmo veder languere coricato sull'impeccabile simmetria della tosatura dell'erba potrebbe essere qualcosa che molto rassomiglia ai nostri stessi desideri.
An Imaginary Country is a sincere invitation to have a close look to what's dying in our well-groomed house garden: You might notice something lying on the perfect symmetry of the trimming height, - something very similar to our intimate desires.
++++++++++++++++++++++++++
Se l'indagine autoptica di ciò che restava delle spoglie del “sogno Americano” ha trovato lucide voci letterarie del calibro di Raymond Carver e John Cheever, allora sicuramente Stars of the Lid (con la loro estetica quasi Lynch-ana) e Tim Hecker contribuiscono a dare una profondità prospettica al senso di vuoto che lascia la fine di ogni non-ideologia (o ideologia tout-court). Il “Paese immaginario” che emerge dall'ultimo lavoro di Hecker sembra non avere confini, bensí sembra codificare un disagio che è sempre appartenuto alla nostra società di consumo, declinandolo attraverso un concetto di eterno presente: l'oggi e la compulsiva attenzione al presente come antidoto contro l'incertezza di un domani che improvvisamente ci volta le spalle. I titoli stessi delle dodici composizioni che costituiscono An Imaginary Country sembrano indicare coordinate solo accennate di luoghi che forse sono più interiori che fisici (Where Shadows Make Shadows, Her Black Horizont, The Inner Shore) e che arrivano a sublimazione attraverso un flusso magmatico e fremente di drones ambientali, talvolta inaspriti e sfocati da turgide saturazioni. Proprio come in Fennesz l'astrazione e la decomposizione della componente melodica, quasi come se frammentata nel riflettersi su specchi in frantumi, possono presentarsi come la chiave di lettura dell'intero disco, che inconfutabilmente è anche animato da un senso profondo di circolarità (l'apertura di 100 Years Ago costituisce un disorientante déjà vu accanto alla conclusiva 200 Years Ago).
An Imaginary Country è un sincero invito a tener d'occhio ciò che muore nei curati giardini delle nostre case: ciò che che potremmo veder languere coricato sull'impeccabile simmetria della tosatura dell'erba potrebbe essere qualcosa che molto rassomiglia ai nostri stessi desideri.
Feedback:
not yet, probably nobody cares, or nobody cared enough to tell something. Also: nobody reads komakino.
Leave a feedback about this post, or don't.
your sweet name:
your IMPORTANT text:
url:
icon: will be resized 30x30pxl
your IMPORTANT text:
url:
icon: will be resized 30x30pxl