Apre le
danze della serata all'Init Silje Nes, timida uccellina delle lande della
Norvegia e ora residente a Berlino, dalla voce delicata e le slanciate
movenze elfiche, in tour per il suo secondo album uscito per la FatCat rec, Opticks,
e missato da Bernd Jestram dei Tarwater.
Si dividono il palco in tre, lei, con la sua chitarra e i mille effetti e pedali, un violinista/bassista e un altro che suona ciò che resta di una batteria, percussioni elettroniche e anche un po' il glockenspiel e la chitarra.
Sono sognanti, rarefatti, dilatati. Un delicato miscuglio di suoni elettronico-acustici e un inizio dolce che avrei ascoltato volentieri più a lungo dei venticinque minuti scarsi loro concessi.
Poi arriva lei, la navigata matrona francese, Laetitia Sadier, già Stereolab.
E' difficile raccontare le sensazioni che questa eclettica e carismatica donna riesce a profondere intorno a sé. Innanzitutto viaggia sola, lei e la sua chitarra da mancina. Nuda e cruda, zero effetti, mesmerica ma umile presenza, voce matura, vibrante, intensa. Su testi impegnati, in inglese e francese, (un pezzo dedicato a Pasolini e uno in cui ironizza su Sarkozy) ci regala le sue melodie eleganti accompagnate da armonie scarne, intesse ghirigori raffinati che salgono dalle basse profondità delle note quasi da contralto alle vette cristalline dei suoni da soprano, come una Joni Mitchell europea e post-moderna.
Grazie, Laetitia, perché fai arrivare al pubblico cosa vuol dire essere donna, cantante, artista, modesta e di spessore, tutto in una sola volta.
Verso le 23.00 arrivano i Mice Parade, trafelati e in ritardo, da Torino, come ci informa lo stesso Adam Pierce, simpatico ragazzone newyorkese e leader della band. Il che (l'essere in ritardo da Torino) comporta un estenuante sound-check dal vivo a cui dobbiamo assistere tutti per quaranta lunghi minuti.
Io sono piazzata, come al solito, davanti al mio sub-wooferone centrale preferito, dove appoggio, per comodità, borsa, giacchetto e ginocchia a rotazione. Adam si scusa più volte anche se il pubblico lo rassicura. Io stessa gli dico: "We can wait" anche se, al quindicesimo minuto, già mi pento della mia affermazione.
L'attesa, per fortuna, viene poi ampiamente ripagata dalla bellissima performance che i sei musicisti ci regalano. Doppia batteria sul palco, una per lo stesso Adam (quando non è impegnato a suonare le sue due chitarre o il mandolino o a cantare o a percuotere il cubo di legno che gli funge anche da sedile) e l'altra, ovviamente, per Doug Scharin (che Dio ti benedica, Doug, per il grande, immenso batterista che sei) quando non è impegnato a maneggiare mixer, suoni e rumori alla sua destra o a suonare il basso. Poi ci sono la bambinesca e angelica voce di Caroline Lufkin (piazzata davanti a un Mac che, probabilmente, le serve per fare solitari di Mahjong tra un pezzo e l'altro o anche tra un cantato e l'altro dello stesso brano, momenti in cui lei si accovaccia timidamente dietro al Mac in questione come se la faccenda non la riguardasse più), la chitarra del virtuosissimo Dan Lippel e, infine, un tastierista/bassista e un altro chitarrista/tastierista.
Dal vivo sono insolitamente energici rispetto al sound che si ascolta nel loro ultimo lavoro, What it means to be left-handed (settembre 2010, sempre FatCat rec), album del quale eseguono quasi tutti i brani in ordine sparso, con tempi leggermente più veloci e in modo molto più grintoso e dilatato.
L'elegante commistione di musica indie, elettronica, folk cantautoriale, ritmi africani e brasiliani, in ambito live, rende perfettamente e lascia ulteriore spazio a molto flamenco e un po' di post-rock.
Questa sera la folla è stranamente silenziosa ed educata.
Abbiamo però a che fare con un nuovo tipo di fauna: l'ubriacone-fattone-perso. L'individuo, ovviamente schierato sotto al palco, alla mia destra, si esibisce in danze traballanti e in improvvise esplosioni di vitalità alternate a rallentate inversioni a u su se stesso. E' circondato da un paio di amici, per fortuna un po' meno ubriachi di lui, che lo accudiscono come si farebbe con un bambino piccolo: lo fanno ballare, giocare e lo abbracciano. Quando cade amorevolmente lo rialzano e controllano che non sia troppo fastidioso con le altre persone presenti in sala.
Lo stordito scatena spesso l'ilarità degli stessi musicisti e tenta di offrir loro piccoli grappoli d'uva tirati fuori da chissà dove. Adam e Caroline gentilmente declinano. Dan, il seicordista flamencoso, coraggiosamente, accetta qualche acino e se lo ingolla. Evidentemente soddisfatto, lo stonato comincia a franare, lentamente e inesorabilmente, di schiena, sulla mega cassa del sub-woofer centrale.
Io faccio appena in tempo a sollevare borsa e giacchetto e lui tramortisce cosí, a cinque centimetri dal mio ginocchio.
Niente bis ma solo perché è tardi, è venerdí e c'è la discoteca.
Si dividono il palco in tre, lei, con la sua chitarra e i mille effetti e pedali, un violinista/bassista e un altro che suona ciò che resta di una batteria, percussioni elettroniche e anche un po' il glockenspiel e la chitarra.
Sono sognanti, rarefatti, dilatati. Un delicato miscuglio di suoni elettronico-acustici e un inizio dolce che avrei ascoltato volentieri più a lungo dei venticinque minuti scarsi loro concessi.
Poi arriva lei, la navigata matrona francese, Laetitia Sadier, già Stereolab.
E' difficile raccontare le sensazioni che questa eclettica e carismatica donna riesce a profondere intorno a sé. Innanzitutto viaggia sola, lei e la sua chitarra da mancina. Nuda e cruda, zero effetti, mesmerica ma umile presenza, voce matura, vibrante, intensa. Su testi impegnati, in inglese e francese, (un pezzo dedicato a Pasolini e uno in cui ironizza su Sarkozy) ci regala le sue melodie eleganti accompagnate da armonie scarne, intesse ghirigori raffinati che salgono dalle basse profondità delle note quasi da contralto alle vette cristalline dei suoni da soprano, come una Joni Mitchell europea e post-moderna.
Grazie, Laetitia, perché fai arrivare al pubblico cosa vuol dire essere donna, cantante, artista, modesta e di spessore, tutto in una sola volta.
Verso le 23.00 arrivano i Mice Parade, trafelati e in ritardo, da Torino, come ci informa lo stesso Adam Pierce, simpatico ragazzone newyorkese e leader della band. Il che (l'essere in ritardo da Torino) comporta un estenuante sound-check dal vivo a cui dobbiamo assistere tutti per quaranta lunghi minuti.
Io sono piazzata, come al solito, davanti al mio sub-wooferone centrale preferito, dove appoggio, per comodità, borsa, giacchetto e ginocchia a rotazione. Adam si scusa più volte anche se il pubblico lo rassicura. Io stessa gli dico: "We can wait" anche se, al quindicesimo minuto, già mi pento della mia affermazione.
L'attesa, per fortuna, viene poi ampiamente ripagata dalla bellissima performance che i sei musicisti ci regalano. Doppia batteria sul palco, una per lo stesso Adam (quando non è impegnato a suonare le sue due chitarre o il mandolino o a cantare o a percuotere il cubo di legno che gli funge anche da sedile) e l'altra, ovviamente, per Doug Scharin (che Dio ti benedica, Doug, per il grande, immenso batterista che sei) quando non è impegnato a maneggiare mixer, suoni e rumori alla sua destra o a suonare il basso. Poi ci sono la bambinesca e angelica voce di Caroline Lufkin (piazzata davanti a un Mac che, probabilmente, le serve per fare solitari di Mahjong tra un pezzo e l'altro o anche tra un cantato e l'altro dello stesso brano, momenti in cui lei si accovaccia timidamente dietro al Mac in questione come se la faccenda non la riguardasse più), la chitarra del virtuosissimo Dan Lippel e, infine, un tastierista/bassista e un altro chitarrista/tastierista.
Dal vivo sono insolitamente energici rispetto al sound che si ascolta nel loro ultimo lavoro, What it means to be left-handed (settembre 2010, sempre FatCat rec), album del quale eseguono quasi tutti i brani in ordine sparso, con tempi leggermente più veloci e in modo molto più grintoso e dilatato.
L'elegante commistione di musica indie, elettronica, folk cantautoriale, ritmi africani e brasiliani, in ambito live, rende perfettamente e lascia ulteriore spazio a molto flamenco e un po' di post-rock.
Questa sera la folla è stranamente silenziosa ed educata.
Abbiamo però a che fare con un nuovo tipo di fauna: l'ubriacone-fattone-perso. L'individuo, ovviamente schierato sotto al palco, alla mia destra, si esibisce in danze traballanti e in improvvise esplosioni di vitalità alternate a rallentate inversioni a u su se stesso. E' circondato da un paio di amici, per fortuna un po' meno ubriachi di lui, che lo accudiscono come si farebbe con un bambino piccolo: lo fanno ballare, giocare e lo abbracciano. Quando cade amorevolmente lo rialzano e controllano che non sia troppo fastidioso con le altre persone presenti in sala.
Lo stordito scatena spesso l'ilarità degli stessi musicisti e tenta di offrir loro piccoli grappoli d'uva tirati fuori da chissà dove. Adam e Caroline gentilmente declinano. Dan, il seicordista flamencoso, coraggiosamente, accetta qualche acino e se lo ingolla. Evidentemente soddisfatto, lo stonato comincia a franare, lentamente e inesorabilmente, di schiena, sulla mega cassa del sub-woofer centrale.
Io faccio appena in tempo a sollevare borsa e giacchetto e lui tramortisce cosí, a cinque centimetri dal mio ginocchio.
Niente bis ma solo perché è tardi, è venerdí e c'è la discoteca.
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