Temo proprio che nel corso della nostra infanzia abbiamo cominciato a
familiarizzare più o meno coscientemente con l'idea di CINEMA quando su
Italia1 stava proliferando la seconda (intendo di serieB) e più intensa ondata dei film sulle saghe dei Marines nel sud est asiatico.
In preda alla fervida immaginazione tipica della pubertà e al carattere vagamente nietzscheano di tutti gli antesignani di Streetfighter a cui eravamo assuefatti in sala giochi, avremmo anche potuto cominciare a credere che Chuck Norris sapesse realmente parlare vietnamita o che l'infuso caldo delle radici di bambù delle campagne di Saigon fosse meglio i qualsiasi ritrovato della medicina occidentale per la cura miracolosa di squarci da Kalashnikov.
Meno male che non doveva passare molto prima che scoprissimo anche i Dead Kennedys, in questo senso.
In merito alle vicende cambogiane della fine degli anni'70 purtroppo va riconosciuto che proprio lo stesso testo di Holiday in Cambodia di Jello Biafra sia di gran lunga più illuminante e formativo di un intero piano di studi del secondo biennio di Scienze politiche a Roma, indirizzo diplomatico.
Tutta l'informazione istituzionale del resto ha taciuto a lungo e in modo tragicamente complice sui raid tecnicamente non ufficiale dei B-52 della Cia sopra le risaie immense del Mekong, le continue deposizioni e imposizioni di governi fantoccio a Phom Penh in funzione della guerra fredda tra Mosca, Washington e Pechino e soprattutto l'orrendo genocidio ad opera dei Khmer rossi, il frutto più atroce probabilmente di tutta la storia del colonialismo moderno.
Una delle testimonianze più lucide e insostituibili sugli anni in cui la furia di Pol Pot ha potuto agire indisturbata all'interno della Kampuchea si deve senz'altro a Dith Pran, uno dei pochissimi cambogiani alfabetizzati (lui era laureato in chirurgia) sopravvissuti ai campi di sterminio in cui fu soppresso più di un terzo di tutta la popolazione del paese (stando ad Amnesty International) e di cui ora – purtroppo - tenevamo a onorare la scomparsa, avvenuta all'età di 65 anni la scorsa settimana a New York.
Seppure in tratti decisamente eurocentrici, la sua figura era già stata celebrata nel film Urla del silenzio del '84 di Roland Joffè, vincitore di tre premi Oscar tra cui uno a Haing S. Ngor, l'attore che lo impersonò.
Qualora vi fosse sfuggito, non sappiamo se è il caso di consigliarvi la visione di quella che è stata per il cinema una delle rappresentazioni più crude delle degenerazioni dei regimi comunisti nel sud est asiatico (la scena della fuga tra una risaia invasa dai teschi delle vittime uccise a bastonate per risparmiar pallottole è ancora oggi, atroce). Di sicuro è altrettanto toccante e vale la pena segnalare Fantasmi, il libro postumo di Tiziano Terzani uscito in queste settimane per Longanesi e che raccoglie il meglio della sua corrispondenza di guerra per oltre vent'anni da quell'area per testate come Der Spiegel, L'Espresso e Repubblica e in cui l'opera di Pran risulta ancora più valorizzata.
La descrizione giorno per giorno dei metodi con cui si è organizzato il massacro è raccapricciante (tra le altre cose erano destinati all'esecuzione tutti quelli che non dimostravano di essere contadini – e quindi filo occidentali (!?)- riuscendo ad arrampicarsi su un albero di noce di cocco) tanto quanto il resoconto sulle strategie geopolitiche folli di U.s.a., U.r.s.s. e Cina.
L'idea di quasi 2 milioni di morti è terribile oltretutto come il fatto che i Khmer rossi ebbero a lungo la rappresentanza all'Onu e che i miliardi i dollari destinati ai rifugiati furono spartiti barbaramente fra i vari signori della guerra locali che rivendettero tutti i beni ai prezzi del mercato nero.
Confrontato con il giornalismo proto-sessuale e gastronomico di oggi i picchi da grandi reporter di guerra di Pran e Terzani appaiono sicuramente impareggiabili. Alla luce dello spietato imperialismo che ancora continua a far mietere vittime in Darfur, Iraq però i loro intensissimi appelli per la pace rimangono ormai del tutto vanificati. Come il sacrificio e tutta la sofferenza che ha dovuto subire il popolo cambogiano, che dopo vent'anni di sanguinosissima guerra civile ormai pare del tutto inerme all'attacco di un turismo consumista inarrestabile e devastante.
ps. Nicolas Pascarel ha fotograto quello che fu il centro di tortura S21, oggi Tuol Sleng Genocide Museum: il servizio dettagli di un genocidio, in pdf, qui, o come galleria fotografica su fotoasia.org.
In preda alla fervida immaginazione tipica della pubertà e al carattere vagamente nietzscheano di tutti gli antesignani di Streetfighter a cui eravamo assuefatti in sala giochi, avremmo anche potuto cominciare a credere che Chuck Norris sapesse realmente parlare vietnamita o che l'infuso caldo delle radici di bambù delle campagne di Saigon fosse meglio i qualsiasi ritrovato della medicina occidentale per la cura miracolosa di squarci da Kalashnikov.
Meno male che non doveva passare molto prima che scoprissimo anche i Dead Kennedys, in questo senso.
In merito alle vicende cambogiane della fine degli anni'70 purtroppo va riconosciuto che proprio lo stesso testo di Holiday in Cambodia di Jello Biafra sia di gran lunga più illuminante e formativo di un intero piano di studi del secondo biennio di Scienze politiche a Roma, indirizzo diplomatico.
Tutta l'informazione istituzionale del resto ha taciuto a lungo e in modo tragicamente complice sui raid tecnicamente non ufficiale dei B-52 della Cia sopra le risaie immense del Mekong, le continue deposizioni e imposizioni di governi fantoccio a Phom Penh in funzione della guerra fredda tra Mosca, Washington e Pechino e soprattutto l'orrendo genocidio ad opera dei Khmer rossi, il frutto più atroce probabilmente di tutta la storia del colonialismo moderno.
Una delle testimonianze più lucide e insostituibili sugli anni in cui la furia di Pol Pot ha potuto agire indisturbata all'interno della Kampuchea si deve senz'altro a Dith Pran, uno dei pochissimi cambogiani alfabetizzati (lui era laureato in chirurgia) sopravvissuti ai campi di sterminio in cui fu soppresso più di un terzo di tutta la popolazione del paese (stando ad Amnesty International) e di cui ora – purtroppo - tenevamo a onorare la scomparsa, avvenuta all'età di 65 anni la scorsa settimana a New York.
Seppure in tratti decisamente eurocentrici, la sua figura era già stata celebrata nel film Urla del silenzio del '84 di Roland Joffè, vincitore di tre premi Oscar tra cui uno a Haing S. Ngor, l'attore che lo impersonò.
Qualora vi fosse sfuggito, non sappiamo se è il caso di consigliarvi la visione di quella che è stata per il cinema una delle rappresentazioni più crude delle degenerazioni dei regimi comunisti nel sud est asiatico (la scena della fuga tra una risaia invasa dai teschi delle vittime uccise a bastonate per risparmiar pallottole è ancora oggi, atroce). Di sicuro è altrettanto toccante e vale la pena segnalare Fantasmi, il libro postumo di Tiziano Terzani uscito in queste settimane per Longanesi e che raccoglie il meglio della sua corrispondenza di guerra per oltre vent'anni da quell'area per testate come Der Spiegel, L'Espresso e Repubblica e in cui l'opera di Pran risulta ancora più valorizzata.
La descrizione giorno per giorno dei metodi con cui si è organizzato il massacro è raccapricciante (tra le altre cose erano destinati all'esecuzione tutti quelli che non dimostravano di essere contadini – e quindi filo occidentali (!?)- riuscendo ad arrampicarsi su un albero di noce di cocco) tanto quanto il resoconto sulle strategie geopolitiche folli di U.s.a., U.r.s.s. e Cina.
L'idea di quasi 2 milioni di morti è terribile oltretutto come il fatto che i Khmer rossi ebbero a lungo la rappresentanza all'Onu e che i miliardi i dollari destinati ai rifugiati furono spartiti barbaramente fra i vari signori della guerra locali che rivendettero tutti i beni ai prezzi del mercato nero.
Confrontato con il giornalismo proto-sessuale e gastronomico di oggi i picchi da grandi reporter di guerra di Pran e Terzani appaiono sicuramente impareggiabili. Alla luce dello spietato imperialismo che ancora continua a far mietere vittime in Darfur, Iraq però i loro intensissimi appelli per la pace rimangono ormai del tutto vanificati. Come il sacrificio e tutta la sofferenza che ha dovuto subire il popolo cambogiano, che dopo vent'anni di sanguinosissima guerra civile ormai pare del tutto inerme all'attacco di un turismo consumista inarrestabile e devastante.
ps. Nicolas Pascarel ha fotograto quello che fu il centro di tortura S21, oggi Tuol Sleng Genocide Museum: il servizio dettagli di un genocidio, in pdf, qui, o come galleria fotografica su fotoasia.org.
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