Montage of Heck è il documentario sulla vita di Kurt Cobain proiettato per soli due giorni nei cinema italiani, ma già presentato al Sundance Film Festival di quest'anno.
Il lavoro per arrivare a questa sorta di docufilm è stato davvero lungo: ben 8 anni, in cui il regista e la figlia di Cobain, che l'ha anche prodotto insieme ad HBO, hanno visionato tutto il materiale a loro disposizione per arrivare a quanto presentato nelle sale.
Il tutto si snoda tra la vita privata e quella artistica di quella che è l'ultima grande icona del rock mondiale. Tra video amatoriali girati in famiglia, spezzoni di concerti che vanno dai primi live in piccoli club alle esibizioni da stadio, il racconto è inframmezzato da interviste alle persone che più erano vicine a Kurt: i genitori, la sorella, un visibilmente commosso Krist Novoselic, una sua vecchia fidanzata e infine quella che è stata la sua ultima compagna, Courtney Love.
Il documentario risente forse di una certa sovrabbondanza di materiali giustapposti e di stili tra loro troppo diversi: si passa da filmati in super 8 che ritrae una famiglia americana forse non troppo felice, ad episodi stile cartoon della vita del nostro (anti)eroe - con registrazioni ambientali mai sentite prima in quanto materiale privato - ad animazioni dei suoi disegni e sculture che spesso si risolvono in un eccesso di grottesco ed inquietudine insieme, come a voler dare l'impressione dei deliri e delle fantasie del protagonista, con tratti spesso molto inquietanti.
Il centro del discorso è comunque il fatto che Kurt sin da bambino è stato un outsider, fino al punto da essere letteralmente rigettato da tutte le persone con cui ha vissuto: i genitori, i nonni, i compagni di scuola. Una persona problematica che viene consegnata continuamente a se stesso e che finisce per abbracciare la musica come tentativo di sopravvivenza in un mondo (affettivo e relazionale) completamente ostile, e che ha raggiunto grazie alla musica risultati davvero sorprendenti.
Facendo un bilancio complessivo, il documentario risente di una certa lungaggine, l'audio in originale da un lato aiuta ad entrare meglio nell'ambiente rappresentato ma poi i martellanti sottotitoli costringono ad una costante attenzione che toglie in parte la piacevolezza della visione. Sarebbe sicuramente una buona idea rivederlo di nuovo.
C'è comunque stato qualche momento davvero commovente - i must confess soprattutto durante una versione a cappella di Smells like teen spirit che, complice il fatto di sapere che il protagonista è morto, tocca davvero nel profondo.
Nel tentativo di proporre qualche cosa di nuovo, c'è spazio infine per un inedito voce e chitarra di Cobain intitolato Rainforest.
In definitiva un buon film, anche se troppo articolato, e che pare abbia raggiunto al botteghino risultati soddisfacenti, nonostante siano passati 20 anni dalla scomparsa di Kurt Cobain, a testimonianza del fatto che il "rock" non è ancora morto.
Il lavoro per arrivare a questa sorta di docufilm è stato davvero lungo: ben 8 anni, in cui il regista e la figlia di Cobain, che l'ha anche prodotto insieme ad HBO, hanno visionato tutto il materiale a loro disposizione per arrivare a quanto presentato nelle sale.
Il tutto si snoda tra la vita privata e quella artistica di quella che è l'ultima grande icona del rock mondiale. Tra video amatoriali girati in famiglia, spezzoni di concerti che vanno dai primi live in piccoli club alle esibizioni da stadio, il racconto è inframmezzato da interviste alle persone che più erano vicine a Kurt: i genitori, la sorella, un visibilmente commosso Krist Novoselic, una sua vecchia fidanzata e infine quella che è stata la sua ultima compagna, Courtney Love.
Il documentario risente forse di una certa sovrabbondanza di materiali giustapposti e di stili tra loro troppo diversi: si passa da filmati in super 8 che ritrae una famiglia americana forse non troppo felice, ad episodi stile cartoon della vita del nostro (anti)eroe - con registrazioni ambientali mai sentite prima in quanto materiale privato - ad animazioni dei suoi disegni e sculture che spesso si risolvono in un eccesso di grottesco ed inquietudine insieme, come a voler dare l'impressione dei deliri e delle fantasie del protagonista, con tratti spesso molto inquietanti.
Il centro del discorso è comunque il fatto che Kurt sin da bambino è stato un outsider, fino al punto da essere letteralmente rigettato da tutte le persone con cui ha vissuto: i genitori, i nonni, i compagni di scuola. Una persona problematica che viene consegnata continuamente a se stesso e che finisce per abbracciare la musica come tentativo di sopravvivenza in un mondo (affettivo e relazionale) completamente ostile, e che ha raggiunto grazie alla musica risultati davvero sorprendenti.
Facendo un bilancio complessivo, il documentario risente di una certa lungaggine, l'audio in originale da un lato aiuta ad entrare meglio nell'ambiente rappresentato ma poi i martellanti sottotitoli costringono ad una costante attenzione che toglie in parte la piacevolezza della visione. Sarebbe sicuramente una buona idea rivederlo di nuovo.
C'è comunque stato qualche momento davvero commovente - i must confess soprattutto durante una versione a cappella di Smells like teen spirit che, complice il fatto di sapere che il protagonista è morto, tocca davvero nel profondo.
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In definitiva un buon film, anche se troppo articolato, e che pare abbia raggiunto al botteghino risultati soddisfacenti, nonostante siano passati 20 anni dalla scomparsa di Kurt Cobain, a testimonianza del fatto che il "rock" non è ancora morto.
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